sabato 19 gennaio 2013

Le mille vite del cappello al cinema . . . . . . da maschera ad arma di seduzione!

MARIA




Ad una persona come me, amante del cinema, non possono sfuggire i particolari, soprattutto quelli che in alcuni film divengono elementi identificativi, restando nella memoria collettiva. Ed è stato proprio un elemento versatile come pochi che ha attratto la mia curiosità, anche perché sono venuta a conoscenza di una serie di iniziative correlate ad una mostra di cui si è vista una interessante anteprima a Milano nel 2011, ripresa e ampliata come prima tappa di una tournée nazionale ed europea. E’ stato il cappello il protagonista alla Triennale di Milano del 2011 di  -Il cinema con il cappello: Borsalino e altre storie-  e ad Alessandria, al Museo del Cappello Borsalino, una serie di eventi intitolata  -Tanto di cappello– da novembre 2012 a ottobre 2013.

                                                                                                                                                                               Ogni iniziativa del genere si fonda su una forte motivazione : perché una mostra proprio sul cappello al cinema, e non sugli occhiali, le scarpe o le cravatte? Nessun altro indumento ha tante storie da raccontare: lo usano uomini e donne. Il cappello maschera, identifica, è uno status symbol e una componente mitologica: John Wayne senza cappello è inconcepibile, così come i Blues Brothers, ma anche una diva come Audrey Hepburn amava i cappelli, fino agli eccessi di “My Fair Lady”. Ma il cappello è anche l'indumento da cui ci si separa più facilmente: un colpo di vento lo fa volare, lo si lancia in alto per la gioia, lo si calpesta per la rabbia! 

                                                   
La mostra -Il cinema con il cappello- a Milano aveva accolto i visitatori con un montaggio di personaggi cinematografici che si tolgono il copricapo per salutare, culminando con un'installazione di decine di cappelli che penzolano dal soffitto come in un quadro di Magritte, mentre sullo schermo volavano i cappelli minacciosi dei gangster di “Crocevia della morte” dei fratelli Coen e quelli gioiosi delle mondine di “Riso amaro”.

                                                                                               
Un lungo lavoro ha portato alla messa in opera di questo interessante progetto : sono state visionate 800 pellicole per poterne estrarre i frammenti più significativi (circa 400!) : ne è venuta fuori una particolare storia del cinema e dell'immaginario.                                                                               La mostra di Alessandria, narra non solo la storia del classico cappello maschile in feltro, che ancora oggi porta il nome del fondatore Giuseppe Borsalino, ma anche tutte le evoluzioni di cui il copricapo è stato ed è protagonista, nella vita come nel cinema.                                                                                                 E’ stato Arturo Brachetti, simbolo della fantasia e dello stile italiano nel mondo, ad inaugurare il ricco calendario di eventi ispirati allo storico rapporto tra la città di Alessandria e Borsalino, fabbrica, ma anche icona, mito cinematografico e di costume : Alessandria e Borsalino, una storia d’amore, un percorso tra immagini, teatro e gioco per esplorare il ruolo del cappello nel cinema e nell’arte.

                                                                                                                                               Con questo incontro inaugurale Arturo Brachetti, partendo dal suo rapporto con il cappello, ha mostrato come una semplice “tesa” nera, vuota nel centro, possa con fantasia e creatività prendere la forma di infiniti copricapi e personaggi, insieme semplici e straordinari.

                                                                                                                                                         Il percorso espositivo si suddivide in vari settori. Si comincia con “L’identità” ovvero Il cinema con il cappello, dove si viene accolti da un grande cilindro multimediale dove scorrono alcune sequenze storiche di più film, fra cui il dialogo di Peter Falk ne “Il Cielo Sopra Berlino”


 di Wim Wenders in cui, attraverso la ricerca del cappello giusto, si racconta il cambio di identità sotteso a ogni cambio di copricapo: gangster, borghese, eccessivo, comico.
“Il cappello che emoziona”, gioca invece sulle diverse emozioni suscitate dal copricapo nelle sue diverse forme: riso, pianto, seduzione e paura . . . e così, attraverso diverse sale, g
uidato da suoni e rumori, il visitatore incontra il cappello che fa ridere, il cappello che fa piangere, il cappello che seduce, il cappello che fa paura.                                                                                                                     “Scappellamenti e gesti”: il saluto, la riverenza, la felicità, il ringraziamento ed il rispetto: tutti i significati dei gesti legati al cappello.
Si continua con “La giostra dei nomi”: dal Borsalino, nome proprio divenuto sinonimo di cappello classico maschile, al basco, all’elmo, al casco, alla coppola, al turbante, alla bombetta, al colbacco, berretto, feluca. Una lunga lista cui corrispondono infinite e curiose forme di cappelli, raccontate attraverso un’installazione multimediale.
Diventano protagonisti i Borsalino più noti nella storia del cinema : ecco quindi i famosi film Borsalino (1970) e Borsalino & co (1974), di Jacques Deray con Jean Paul Belmondo e Alain Delon, in cui
Borsalino è stata la prima marca che ha avuto l'onore di diventare titolo, senza altre parole. 

                                                                                                                                             Ma, più che ai simpatici gangster anni Trenta, il curatore della mostra, è legato al Borsalino che indossa il protagonista del “Matrimonio di Maria Braun” di Fassbinder: non se lo toglie nemmeno per fare l'amore per la prima volta con sua moglie, e per una fatalità del caso, lo indossa anche quando muore . . .

                                                                                                                          Il cappello non rappresenta un semplice accessorio, ma definisce i ruoli, le professioni, le classi, mettendo in evidenza la corrispondenza fra la gestualità rituale ed i personaggi dei film che nessun altro capo di abbigliamento permette: lo si tocca, lo si alza e lo si usa come antistress.              

 È l'immortale Humphrey Bogart a essere debitore del suo inseparabile Borsalino o è il cappello della leggendaria casa alessandrina a dovere tutto al mito di “Casablanca”?
In molti film il cappello viene usato dagli assassini per nascondere il proprio volto. 
Al cinema il cappello crea mode e tendenze: da James Dean che negli anni Cinquanta lancia il grande cappello con falda rialzata che campeggiava nella locandina de “Il Gigante”,  al colbacco che con “Il dottor Zivago” entra a far parte del vestiario occidentale, al berretto di lana de “Il cacciatore” a quello di “Rocky” quando, dismessi i guantoni, vaga per le strade di Philadelphia. Un articolo, quest'ultimo, che non a caso diventa il copricapo popolare degli anni Settanta.

                                                                                       
Senza dimenticare che grandi registi hanno depositato la propria icona in un'immagine col cappello: si può immaginare Fellini senza il suo cappello? e Sergio Leone. . . e  Orson Welles . . .                                                                                                                                                                  Una raccolta di foto, cimeli e materiale interattivo di vario genere che indaga il binomio centenario tra cinema e cappello, un tema dalle innumerevoli possibili declinazioni: cosa sarebbe Indiana Jones senza il suo cappello a larghe falde?



 O Charlot senza la sua bombetta?

                                                                                                                                                                                   Si scopre, per esempio, che l' “Elephant Man” di David Lynch, pure se ha tutto il volto coperto da un cappuccio, non si separa mai da un berretto, il suo unico e ultimo appiglio all'umanità.

                                                                                                                                                                         Il cappello è un dettaglio inquietante : quanti serial killer lo portano, da Peter Lorre, mostro di Düsseldorf all’inquietante Freddy Krueger, nella serie «Nightmare», ma anche uno strumento comico inesauribile con  Chaplin, Buster Keaton e i Fratelli Marx.                                                                 E che dire dei diversi modi in cui lo utilizza “Indiana Jones” : stili diversi per personaggi diversi. 

                                                                                                             
Diventa un'arma di seduzione e in questo senso, sono soprattutto le donne a usarlo: nel cinema il cappello racconta efficacemente e silenziosamente, genera riconoscimento e identità, sollecita trasformazioni: in “Sabrina” il cappello segna la trasformazione parigina di Audrey Hepburn in donna di classe, 


i cappelli di Greta Garbo in “Ninotchka” sono addirittura segni precursori della fine del comunismo. Marlene Dietrich nell'”Angelo azzurro”,



 Magali Noël alias Gradisca in “Amarcord”,




 Charlotte Rampling in versione nazi in “Portiere di notte”, 



Lena Olin in “L'insostenibile leggerezza dell'essere”, Maria Schneider in “Ultimo tango a Parigi”.                                                                                                                                       È la prova che, come evidenziatore del corpo nudo, il cappello turba più della banale 
giarrettiera!


Maria , l'ho trovata in archivio...versione : "mi riparo dal sole siculo"....


Mi fermo qui e vado a cercarmi  . . . un cappello, magari alla Marlene Dietrich e . . . Hut . . .o se volete, chapeau . . . tanto di cappello !!





Maria... a dopo

1 commento:

  1. Interessante. E informato. Io, che sono strombolo, non amo i cappelli ma le coppole.

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